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ADOLESCENZA E SPINELLO

ADOLESCENZA E SPINELLO

La mamma fruga come sempre nelle tasche dei jeans del figlio prima di infilarli in lavatrice e trova qualcosa di strano. Marrone come la terra, ma non può essere. Una sigaretta sbriciolata? Lo spera vivamente, come per scacciare un terribile sospetto. Il papà, rientrato la sera, analizza i reperto custodito nella carta stagnola e capisce immediatamente che non è tabacco da sigaretta. È un’altra cosa, il cui nome fa ancora troppa paura. Si guardano negli occhi, senza parole. In quel momento ci è crollato il mondo addosso, dicono molti genitori. Quella “cosa” rappresenta tutto ciò che non avrebbero mai voluto, che si erano augurati non succedesse mai. Si ritrovano distrutti e con la sensazione netta del loro fallimento educativo. A cosa sono servite le raccomandazioni, le buone letture, il buon esempio di una vita intera? E l’aver seguito i figli giorno per giorno, facendoli sentir amati, seguiti a prezzo di tanti sacrifici? Tutto finito con quel pezzo di stagnola accartocciata (e lo stesso vale nello scoprire la figlia che mangia e vomita o che si è ridotta a pelle e ossa…). La prima reazione, la più ovvia e doverosa è la dissuasione del figlio. Gli argomenti sono: lo spinello danneggia la salute, guarda quelli che si sono rovinati, smetto quando voglio è un’illusione, non vedi che stiamo tutti male per te. Ogni genitore ricorre al suo personale repertorio con argomentazioni valide, oggettivamente giuste e ragionevoli. Gli accenti della dissuasione sono i più disparati, dalla rabbia al ragionamento pacato, passando dal rimprovero alla minaccia. A essi vanno aggiunti le restrizioni delle uscite, del denaro disponibile, i limiti dell’uso del computer. Tutto drammaticamente inutile. “È inutile che mi fai le analisi -dice il ragazzo- ti dico io che sono positive”. Picchiarlo non si può, sbatterlo fuori di casa nemmeno, metterlo in comunità non appare una scelta proporzionata, cercare di convincerlo non approda a nulla. Le contro argomentazioni sono: così fan tutti, non è un dramma, non significa essere drogati, lo si fa per noia, se non lo faccio perdo la compagnia, lo fanno anche quelli che tu credi siano bravi ragazzi, non stressarmi altrimenti scappo di casa, fino al più definitivo: la vita è mia e faccio quello che ho voglia io.

Chiamato in caserma dai carabinieri: nessun risultato. Portato dal medico che lo ammonisce sui pericoli della droga: nulla. I parenti cercano di farlo ragionare: non va più a trovarli. Ti porto dallo psicologo: portami pure tanto io non parlo. È una guerra di trincea che sfianca e logora i rapporti.

Il percorso interiore del genitore è difficile e lungo e porta all’accettazione della propria impotenza. Non alla perdita della speranza, ma al riconoscere l’impotenza: non si può impedirgli di sbagliare con la forza delle argomentazioni e dei divieti. Da qui un altro modo di gestire la situazione, senza che questo significhi avallare il comportamento del figlio o il far finta di niente. La mamma: ho capito che tu hai deciso di non smettere, che per ora cercherai di ridurre il consumo per non correre rischi. Mi chiedo come farai, mi sembra difficile limitare il consumo se nella tua compagnia tutti ne abusano. Quando rientra: come stai? Posso fare qualcosa per te? Per la prima volta il figlio sente che il genitore non gli vuole mettere dentro il suo pensiero, ma ‘viene sul suo terreno’, lo segue e cerca di capirlo. Si affianca a lui senza essere compiacente né rinunciare alle sue convinzioni. Lo aiuta a trovare le motivazioni per fare ciò che è giusto, senza imporsi, senza dettare regole o dare divieti. Lo raggiunge dove si trova ora, senza paura di sporcarsi le mani, per far apparire qualche considerazione che vada nella giusta direzione e che aiuti anche il figlio a vedere le cose da un’angolatura diversa. È un’amore più mite, purificato dal fuoco dell’impotenza e per questo più efficace.